giovedì 12 giugno 2008

Autunno - di Claudio Spadoni

Cercano i merli
fra l'intrecciar dei rami
di farsi spazio
per arrivare al cielo.

venerdì 4 aprile 2008

Compagna di vita - di Claudio Spadoni - autobiografico

Oggi, o mia fedele compagna, mi hai guardato nuovamente negli occhi, mi hai preso per mano e mi hai abbracciato forte.
E per ore non mi hai abbandonato.
Ed io son rimasto qui, stretto a te ed ho aspettato.
Ho aspettato che il tuo ardore finisse, che la tua stretta si allentasse e che i miei occhi ti potessero guardare bene ancora una volta, prima che ti allontanassi da me con un ultimo tremore. Quel tremore carico di promesse di un tuo prossimo ritorno nella mia quotidiana esistenza.
Questa quotidiana esistenza con te, mia fedele compagna di vita.
Con te, sclerosi multipla.

giovedì 20 marzo 2008

SCRIVERE - di Elena Zerbin (Testo in corsivo) - Presentazione di Franca Fusetti

La parola, come una divinità olimpica, nasce e vive per sempre. Nasce come viene pronunciata o scritta, anche solo pensata, e percorre il suo eterno cammino. Vive di forza inesauribile e si espande nel mondo producendo una catena di relazioni fra causa ed effetto a rincorsa, trame intessute di imprevedibili e fantasiosi orditi.
Diversi dunque i modi di darle vita. Uno dei più seguiti è la scrittura. Basta fare una capatina in libreria per capirlo. Nonostante ciò ci sono testi, che in libreria non arrivano. Rimangono in un cassetto di comodino o dimenticati in soffitta. Peggio, possono finire al macero per il riciclaggio, come mi è capitato di sapere. Ma anche così, nel silenzio, esse vivono. Vivono del rimpianto di un incontro perduto. Alla parola è concesso un suo respiro dunque. A darle alito, in questo componimento, è un’anziana signora, nata e vissuta sempre presso le sponde del Po di Gnocca che ha sentito il desiderio di raccontare e mi ha dato il permesso di pubblicare il testo in questo blog.
-Vuole che metta uno pseudonimo, le ho chiesto.
-Ho già segnalato le mie generalità, ed anche la data di nascita, mi ha risposto.

“Mi chiamo Zerbin Elena, sono nata a Porto Tolle il cinque agosto del millenovecentoventuno-Ho ottantacinque anni..
Questo mio libro (quaderno) chi lo raccoglierà spero lo tenga per una memoria. Come chiamarlo? Diario, ma non so. Vorrei scrivere un po’ della mia vita, da quello che mi ricordo.
Ero una bambina nel 1929, in pieno inverno, freddo, il Po ghiacciato, la gente andava qua e là sopra il ghiaccio del Po di Gnocca.
Tempi duri, non si conosceva nemmeno cosa fosse una stuffa a legna, bruciavamo canna e paglia, nel camino, per scaldarsi.
Nel 1930 mio fratello era andato a prestare il servizio militare, mia mamma e mio papà e mia sorella lavoravano in risaia. Me, andavo a scuola, ma in questo periodo mio papà si ammalò di una malattia piuttosto brutta: il tinfo nero. Una malattia contagiosa: eravamo con il filo tirato intorno casa. Non poteva entrare nessuno, si potevano prendere la malattia.
Mio papà si fece ottanta giorni in letto e, io, me lo custodivo.
Allora si pagava tutto, medicine e pure l’ospedale.
Tempi duri, tempi neri, si lavorava tanta terra, dieci campi di risaia, come dire, melma si zappava! Non ci conoscevamo se eravamo persone o bestie: tutti pieni di terra sporca. E a fine anno quando si andava a fare i conti col padrone, eravamo rimasti in debito quaranta lire. A quel tempo erano tante; si portava a casa riso e formentone (granoturco) per tutto l’anno, ma non bastava. Solo quello! Il pane, vino, solo una volta alla settimana. Ho lavorato!
Nel tempo del fascismo, se volevo guadagnare la giornata, dovevo andare a marciare, come dire: fando (facendo) uno-due il sabato fascista!
I tempi purtroppo erano così, ma dentro me non mi sentivo per quel fare, mi sentivo ad essere alleata con tutti e aiutarsi nel modo più umano della nostra vita. Quello per me lo trovavo più importante.
Nel 1940 eravamo in guerra, avevamo la tessera per comprare quel po’ che si trovava. Poco zucchero, poco di tutto, non si trovava il sale. Il mangiare lo facevamo con l’acqua salata che andavamo prenderla nelle valli. Tutto era razionato.
Nel 1943 l’otto settembre avvenne l’armistizio, entrarono i tedeschi, ci facevano il coprifuoco. Alle otto di sera tutti chiusi dentro casa. Rastrellamenti. Venivano alle case con fucile e mitra per vedere se trovavano qualcuno che fosse scappato dalla guerra per portarli in Germania.
Aeroplani che bombardavano. Andavo a lavorare. Mi nascondevo in mezzo il riso, nei fossi pieni d’acqua, appena fuori con la bocca per respirare, piena di paura. Buttavano giù spezzoni. Dove andavano giù facevano delle buche tanto larghe e di tanta profondità; mi trovai in mezzo la risaia a cento metri di distanza dal spezzone, per fortuna la risaia era tenera, altrimenti non so come mi avrebbero trovata: o ferita, o morta. Ancora mi sento i brividi, che ho ottantacinque anni. Tutto è passato, ma lo si ricorda!
Nel 1945, il 25 aprile è finita la guerra e ai 15 di dicembre mi sono sposata.”

La signora Elena continua il suo racconto citando il susseguirsi di avvenimenti familiari . La nascita dei figli e il duro lavoro nelle valli, assieme al marito dediti alla pesca, alla raccolta della canna e al lavoro nei campi. Racconta come per lei non ci fosse mai riposo, ma quanto fosse felice nel veder crescere i figli e nel realizzare la costruzione di una piccola casa in muratura togliendosi dalla “baracca” dove, per povertà, erano stati costretti a vivere fino ad allora.
Anno dopo anno Elena costruisce la sua storia. Ora che gli anni sono aumentati e vanno verso i novanta, fa una riflessione su come le sembra che vada il mondo.

“Siamo nel Novembre del 2007- vorrei scrivere ancora un po’.
Mio marito il prossimo anno ha novanta anni ed io vado per gli ottantasette.
Tutti dicono è cambiato il mondo. Io dico è la gente, le persone che sono cambiate. C’è odio, invidia, non ci vogliamo più bene. I figli che ammazzano i genitori, oppure i padri che ammazzano i figli.
In questo momento mi faccio delle domande ma devo trovare anche delle risposte. Allora mi soffermo un po’ e me ne faccio una ragione, poi mi guardo intorno. Manca il rispetto, la comprensione, l’amore vero di parlare fra genitori e figli. Ma i genitori sono messi da parte perché, dicono, siete vecchi e non sapete niente. E’ vero che siamo vecchi, ma io dico, sono capaci loro di mettere in atto il cervello e farlo ragionare? Tante persone sono anziane e sole, ma questa è una ruota che sta girando per tutti. A questa età si ha bisogno di una parola di conforto. L’amore quello vero, il rispetto dov’è andato a finire?
Con tutta la mia esperienza che ho fatto, e ne ho passate tante, non capisco perché si debba vivere tanta solitudine e incomprensione ora che c’è il benessere.”

La signora Elena scrive con lo stile che le è stato insegnato negli anni venti. Stile della parlata spontanea. Mentre la leggo mi sembra di sentirla. Fra di noi parliamo in dialetto, ma ogni tanto si riporta qualche frase in lingua italiana e mi pare di sentire la sua voce.

martedì 15 gennaio 2008

Omaggio a Giovanna e Franca

La sposa Nara

autrici: Giovanna per il testo in corsivo
Franca per il testo ordinario

Dalla finestra aperta entra, col sole, anche il brusio continuo del fiume di persone che passa là sotto, in ogni stagione. Ma non si vede nessuno, neanche a sporgersi, perché le stanze sono all’ultimo piano del palazzo, proprio sopra il tetto, e una larga parte sporgenti di questo chiude la visuale della strada. Gli occhi rimangono invece poco sopra la copertura del Corridoio de Vasari, che corre da Palazzo vecchio a Palazzo Pitti, , e poi, alzandosi, abbracciano uno spicchio delle colline: verso sinistra San Miniato al Monte spicca nel verde con i marmi bianchi della facciata come una figurina ritagliata, e poi il Forte di Belvedere, che per fortuna non è mai stato chiamato a difendere la città, perché sembra messo lì più per farsi guardare, che non per la guerra.
Si vede anche l’Arno, da quelle finestre, e così Nara l’acqua ce l’ha anche ora, sia pure in una cornice così diversa.
Ma Nara qui sta bene dentro casa, quella casa in cui il suo Gigi è nato ed è stato sempre, anche quando è rimasto solo dopo la morte dei genitori, e non sapeva dove mettere le mani per tenere ordine e cucinare. Quelle mani così abituate a fare un lavoro delicato e minuto, in cucina riuscivano a rompere i piatti, a versare acqua per terra, a mettere di sghimbescio la tovaglia sulla tavola.
Fa l’orafo, il suo Gigi, e ha il laboratorio proprio a due passi, sotto l’arco, insieme ad altri artigiani come lui. La sua fantasia e le sue dita fabbricano lavori d’oro lievi e traforati come un ricamo.
Un’altra cosa che fa Gigi è andare in bicicletta, ed è stato proprio durante una gita a Venezia con il gruppo dei suoi amici, che si è fermato a chiedere di riempire la borraccia d’acqua presso una casa isolata fra due canali, due bracci del delta del Po.
L’acqua gliela data una ragazzina smilza, bruna e silenziosa, e mentre Gigi risaliva in bicicletta quel cosino ha alzato gli occhi a guardarlo. Occhi fondi, che vedevano fuori e si aprivano allo stesso tempo come una finestra per farsi guardare dentro. Ci si scopriva il verde di piante palustri, che nello specchiarsi e perdersi nell’acqua rendevano verde anch’essa. Ci si scoprivano sogni di chissà che cosa, forse sogni di sogni. Ci si poteva perdere, in quegli occhi, tirati dentro da una magia sottile, buona e dolce, come la carezza dell’acqua nella corrente lenta e senza sosta.
Ha sorriso, e a Gigi quel sorriso gli è rimasto dentro per tutta la gita, gli è rimasto dentro come la luce di un faro che segnala in mezzo al nulla un riferimento sicuro, una presenza umana, l’intimità di uno spazio caldo e raccolto.
Ha preso l’automobile, quindici giorni dopo, per tornare a cercarla, riandando a memoria per quello spazio grande e piano. Lei, l’ha vista da lontano, seduta sull’argine alto, ma non l’ha chiamata, è andato diretto verso la casa.
Un uomo sul retro, seduto su di un tronco tagliato, gonfiava le gomme di una bicicletta.
“E’ lei il babbo di quella ragazza che si vede lassù?”
“Nara? Sì.”
Gigi gliel’ha chiesta, semplicemente, gliel’ha chiesta in sposa. E se prima non l’ha detto alla ragazza non è stato per mancarle di rispetto; era sicuro anche per lei.
L’uomo lo ha guardato senza stupirsi, con gli occhi liquidi al fondo come quelli della figlia, ma qui non c’erano sogni, c’erano fatica e fatalità. L’ha guardato a lungo, in silenzio, e poi ha detto sì, va bene, e gli ha teso la mano. Un contratto fra uomini, prima che davanti al prete.
Così, Gigi si è fermato i giorni necessari, e dopo la messa e la festa sul prato se l’è portata via, ancora col vestito di sangallo bianco indosso. Se l’è portata a casa, a Firenze, e le ha messo nel palmo della mano le chiavi, come in un rito.
Sono passati quasi quattro mesi, ormai. Nara, quassù sui tetti, si sente la regina di un pezzetto di paradiso. Lucida, cucina, canta verso il cielo le canzoni della sua terra. Gigi, quando rientra, la stringe forte, e lei si rannicchia dentro quelle braccia lasciandosi andare alla corrente delle emozioni che le arrivano dal tocco, dall’odore, dai sussurri del suo uomo, come un tempo si faceva prendere dai profumi e dai colori del fiume e dalla vita che vi scorre dentro e accanto. Lui la sente vibrare, ed è una bella canzone.
***
Nara, da giorni, sente il suo corpo cambiare, una tensione premere dal suo ventre, dai suoi seni, Gigi le sfiora le labbra, fattesi più dense e morbide, con indefinito stupore.
In fondo agli occhi della sua sposa vede ora una luce calda ed avvolgente come gli assolati tramonti in Sacca, da lei più volte descritti, quando la palla di fuoco avvampa la laguna, e vede una nuova consapevolezza riaffiorare. Stordito, Gigi, la lascia, come ogni mattina, per recarsi al lavoro.
Quel giorno non riesce ad applicarsi sui suoi delicati gioielli. Dovrebbe completare una spilla a cui manca d’incastonare un rubino, ma inutilmente: il rubino è riottoso, non entra nel castone gli scivola dalle pinze; forse dovrà ripetere il taglio della pietra o, più ragionevolmente, riadattare l’incavo in quella lavorazione a filigrana che lui sa eseguire con perfezione…si vedrà? Per il momento ripone gli arnesi, si toglie la lampada appoggiata alla fronte assieme alle lenti d’ingrandimento e si sofferma a rimuginare su ciò che gli sta capitando. Più riflette e più si va rafforzando in lui la certezza di un’imminente rivelazione da parte di Nara.
L’ama tanto, Dio solo lo sa, ma un bambino no, spera di no con tutto se stesso: non è pronto a diventare padre perché troppo giovane, o forse troppo egocentrico; sicuramente non ancora maturo.
Da quando i suoi l’hanno lasciato ha dovuto cavarsela da solo nel gestire il piccolo patrimonio ereditato, così come per le incombenze quotidiane. Non è stato facile, soprattutto quando ha affrontato il matrimonio. Ha dovuto rivedere da solo l’arredamento della casa per renderla funzionale alla nuova vita di sposi. E’ stato necessario eliminare qualche pezzo della vecchia mobilia, cara ai genitori scomparsi: recidere legami affettivi con le cose, con i ricordi. Nara era lontana e solo il pensiero di lei lo sosteneva in quello spoglio affliggente. Poi Nara è arrivata, condotta da lui, ed ogni cosa, ogni sentimento hanno ripreso la giusta connotazione ed un nuovo valore. La sua vita ha cominciato a nutrirsi di un’energia sconosciuta che rendeva lieto lo scorrere dei giorni.
Mentre sale le scale, all’ora di pranzo, sente il fiato mozzarglisi in petto per via dell’ansia causata dai suoi timori.
La cucina è inondata di luce ed un buon profumo di cibo appena cotto intriso di aromi mediterranei gli sgombra la mente ed attenua la tensione.
Nara termina di apparecchiare la tavola senza tralasciare un piccolo fiore di abbellimento, come se ce ne fosse bisogno! Lei è un fiore che dà ornamento a tutta quella casa ed alla loro esistenza! Gigi non manca di dirglielo: - I fiori vanno bene Nara! Ma sappi che te tu sei il fiore per me! – Sono uno stupido! – Si ripete Gigi mentalmente. – Perché ho così tanta paura di un bimbo? Ma sì, mi sto preoccupando per nulla! – Cerca di convincersi – Ma per un figlio è ancora presto, presto anche per Nara! –
***
la corriera delle quattro e mezza si ferma, là fuori, giusto il tempo di far scendere un passeggero.
- Toh, è tornato prima il Tonin, oggi – pensa.
Tonin, il figlio di una delle tre famiglie che abitano lì, in quel gruppetto di case, è l’unico che lavora al paese, alle Poste, e va avanti e indietro ogni giorno. Gli altri, nei campi o a pescare, oppure se ne vanno appena possono. A cercare lavoro altrove, che di continuare la vita dei loro vecchi non ne hanno voglia. O forse, chissà, non sopportano i silenzi, il vuoto, la nebbia. Bisogna amarla molto questa terra per esserle fedeli. Oppure se ne vanno per sposarsi, come la sua Nara, che ancora così bambina le è stata portata via, lontano.
Lo sa che Nara è amata e rispettata, che ha una casa dove è regina. Anche lei ama e stima suo genero, ma le manca la sua bambina, le manca. E’ circondata solo da uomini ormai, il marito e gli altri tre figli. Mentre fra loro donne anche se non hanno mai sprecato parole c’era già un’intesa, un muoversi uguale e insieme.
- Mamma, sei qui? –
- La voce la sorprende alle spalle, i pensieri che brulicano per la testa l’avevano distratta. Si volta di scatto, ed eccola lì, figuretta ritagliata nella luce della porta.
Sembra un miracolo, un’evocazione del pensiero, ma nel tenerla stretta stretta nell’bbbraccio sente bene che è qui davvero, la sua Nara.
La ragazza rimane per un attimo sorpresa, sua madre non è mai stata usa a lasciarsi andare a tante manifestazioni di tenerezza, ma capisce subito il suo stato d’animo, e l’abbraccio si fa ancora più forte.
- Stai bene? Come mai questa sorpresa? –
L’ha scostata ora, la madre, e la guarda attentamente un poco accigliata, tesa a cogliere sul viso della figlia segni rassicuranti. Poi, d’improvviso, una luce negli occhi, un sorriso gioioso, un’espressione di sollievo.
- Sei incinta, bambina mia. –
- Come lo sai? –
- Lo so e basta. Vieni, siediti e racconta. –
Così si mettono accanto, le mani nelle mani. Rimbalzano dall’una all’altra sintomi e sensazioni, domande e consigli, ricordi e timori. Una confidenza tutta nuova.
- Sai, mamma, sono rimasta così sgomenta! Non ho avuto neanche il coraggio di parlare con Gigi. Lui ha capito che c’è qualcosa che devo dirgli, e penso anche che immagini cosa, e se non gli ho detto niente è perché l’ho sentito spaventato come me. Ma ora che sono qui, non ho più paura. Nascerà a maggio, il mio bambino, e voglio che sia qui, nel letto dove sono nata io, e anche tu, mamma, e la nonna prima di noi. Così voi mi aiuterete. Crescerà a Firenze, come è giusto che sia, nelle cose belle e nel rumore della città che anch’io ho imparato ad amare. Ma gli occhi li deve aprire qui, e le prime cose che vedrà devono essere i canneti, e l’acqua, e le distese di terra, e tutto quel mondo che io ho sempre dentro così forte. –
Rotti gli argini come un tempo facevano le piene del Po, i pensieri si quietano, hanno uno spazio largo su cui procedere.
Si è fatto quasi scuro, e non se ne sono accorte, il lume non è acceso. Gli uomini tornano, tutti insieme.
- Non si cena stasera? –
Entra in cucina il maggiore dei figli, sempre il più affamato. Guarda stupito e preoccupato alla tavola neppure apparecchiata, mentre la madre è sempre così pronta al loro rientro. Non si è accorto delle due donne vicine, nell’angolo.
- Pane e formaggio – è la risposta franca e decisa che gli arriva.
La mattina dopo, Nara è in oiedi appena fa giorno, ansiosa. Non vuole che sia troppo presto per non spaventarlo, ma neppure troppo tardi che sia già uscito al lavoro, per telefonargli.
- Gigi, mi manchi. Mi vieni a prendere domenica? -
***
Gigi raggiunge il casolare la domenica pomeriggio.
Ora che sta per diventare padre, suscita un sentimento di stima e solidarietà nella famiglia di Nara, che lo accoglie con accresciuto affetto.
Il ragazzo percepisce un atteggiamento quasi di protezione. Vorrebbe chiederne spiegazione a Nara. Ma lei non accenna ad appartarsi, dato che tutti sono riuniti nella grande cucina per l’imminente cena. Con lo sguardo gli comunica teneramente di pazientare accennando alla madre indaffarata presso la stufa dove la polenta ed i “bisati in tocio” sono quasi pronti.
Intanto Gigi viene calamitato da Riccardo, il fratello maggiore di Nara che vuol saper tutto sul viaggio. Sebbene stanco, non vuole deludere l’entusiasta curiosità del cognato e non lesina i particolari né le impressioni che lui stesso ne ha colto.
Si è messo in cammino di buonora, quando la città era ancora immersa nel sonno. Le vie e le piazze erano deserte, appena delineate dai primi albori. I profili dei palazzi, la torre di Palazzo Vecchio, la cupola di S. Maria del Fiore si stagliavano nette contro il cielo appena rischiarato. Alcuni scorci si presentavano in controluce come nere sagome minacciose.
Riccardo immagina la città scorrere nel riquadro del parabrezza come una pellicola cinemascope: i palazzi che si avvicinano, per fuggire subito via, uno dopo l’altro, di corsa; il Ponte Vecchio cingere l’Arno che è come il Po, ma più piccolo, forse come il Canal Grande a Venezia perché, anche là, c’è un ponte con botteghe orafe.
Gigi racconta di aver preso la strada che porta a Pratolino, Cafaggiolo, Barberino di Mugello, Passo della Futa, Pietramala, Passo della Raticosa ed infine giù verso Bologna passando da Monghidoro e Pianoro.
Una volta raggiunta Ferrara e Trisigallo gli sembrava di essere già arrivato, il paesaggio uniforme della campagna padana scorreva velocemente. Raggiunta l’Abbazia di Pomposa il racconto descriveva percorsi noti che fortunatamente erano sgombri della solita nebbia. Nel tratto toscano che come si sa, è quasi tutto collinare, si incontrano vaste estensioni di vitigni e oliveti e le strade sono costeggiate da file di cipressi.
- Te la ricordi “Davanti San Guido” che fa: i cipressi che da Bolgheri alti e stretti/van da San Guido in duplice filar/quasi in corsa giganti giovinetti/mi balzarono incontro e mi gardar..? –
Riccardo rammenta di averla mandata a memoria quasi tutta alle elementari e di aver mandato anche la maestra a quel paese più di una volta; però è bella e Gigi l’assicura che l’immagine è la stessa e che il paesaggio è poesia. Riccardo rimane colpito e sogna di poter, un giorno, percorrere quei luoghi con un mezzo proprio, magari con una lambretta che da tempo conta di acquistare.
-Pronti a tavola! – Annuncia la mamma con voce festosa.
Nara e Gigi prendono posto vicini. Finalmente possono stringersi affettuosamente la mano mentre la mamma scodella il brodetto di anguille accompagnato dalla polenta nel piatto.
La polenta è rigorosamente bianca con profumo più delicato rispetto a quella toscana. Prima che Gigi portasse qualche chilo di farina, in Borgo Polesinino, nessuno avrebbe potuto credere che potesse esistere del granoturco giallo.
Lorenzo ne aveva sentito parlare, quando era soldato, dai compagni del centro e sud d’Italia. Più di un’argomentazione si trattava di uno sfottio – precisa Lorenzo – loro chiamavano noi Veneti “polentoni” perché correva voce che non mangiassimo che polenta. Nel Meridione cresce bene il grano duro che serve per fare la pasta e il pane. Le nostre zone sono buone per il grano tenero ed il granoturco. La polenta ha preso il posto del pane fresco che costa troppo. E non solo. Abbiamo un forno inadatto a soddisfare una richiesta giornaliera. Al posto della pagnotta, qui si fa il “bussolà”, un pane a ciambella di un venti centimetri di circonferenza e circa cinque di diametro – come questo che puoi vedere in tavola - che ora è morbido perché appena cotto, ma che diventa secco e può durare per più di un mese. Si spezzetta nelle zuppe di verdura e nel caffelatte e si intinge in acqua per ammorbidirlo quando si consuma con fette di salame, in questo modo il forno ce la fa a rifornire tutte le famiglie del pane necessario.
E’ il padre che parla quasi sempre rivolto al genero che è il commensale di riguardo, il resto della famiglia ascolta rispettosamente. La madre interviene di tanto in tanto per assicurarsi che tutti abbiano cibo a sufficienza.
Gigi ascolta garbatamente ma è impaziente di restare solo con Nara. Lorenzo lo intuisce e fa in modo di non protrarre i tempi della cena pur avendo voglia di raccontargli della famiglia d’origine e dell’ umile storia che aveva caratterizzato la vita in Polesinin. Lo farà in un momento più favorevole.
Possono finalmente coricarsi. Gigi si sente indolenzito in ogni parte del corpo per la tensione accumulata durante il giorno e, sebbene accoccolato fra le braccia di Nara, non riesce a sgombrare la mente dall’assillo che lo accompagna ormai da qualche settimana. Il suo volto è tirato, pieno di ombre.
- Perché sei così pensieroso?
- Non sono pensieroso.
- Invece sì, si vede che qualcosa ti preoccupa.
- Non c’è niente che mi dia pensiero o forse sì…ma non è una preoccupazione, è qualcos’altro.
- A cosa pensi?
- Nara, ti vedo così cambiata!
- Cambiata come?
- Sei diversa, sei più…
- Più brutta?
- Nohoh!, ma che dici schiocchina! Perché dovresti essere diventata “più brutta”? Non sei e non sarai mai brutta.
- Allora, cosa sono “più”? Spiegami bene che intendi con quel “sei più”.
Nara lo sa che Gigi ha capito da tempo. Vorrebbe vederlo brillare di felicità e non comprende il suo riserbo. Desidererebbe sentirgli dire che diventeranno il babbo e la mamma più felici del mondo e che quel bimbo è la gioia della loro vita.
- Beh, ho notato che hai i lineamenti più dolci, ma nello stesso tempo più marcati e lo
sguardo…lo sguardo è più languido.
- Allora sono più bella?
- Ma no, cioè sì! Sei diversa, ecco tutto! Sei come…
- Una donna incinta?
- Già!
Alza il capo, si mette su un fianco e la osserva stupito o forse deluso. In silenzio le passa una mano fra i capelli in una carezza lenta, rilassata. Ora il dubbio è chiarito e l’ansia dell’incertezza svanita.
- Ti dispiace?
- No, e a te?
- Io sono strafelice e vorrei condividere con tutti la mia gioia, ma specialmente con te.
- Non dubitare, sono contento anch’io! Ma non mi spiego come possa essere successo.
Eppure abbiamo sempre fatto attenzione.
- Abbiamo fatto attenzione anche quella notte in cui siamo stati attenti due volte di seguito,
troppo vicine perché “loro” avessero già abbassato la guardia!
- Loro chi?
- Gigi…ti prego!
- Loro chi? Ti sto chiedendo?
Nara ingenuamente risponde.
- I tuoi semini, no?
- Ma quando è stato con precisione?
- E’ stato il tredici di febbraio e ti avevo ben avvertito che era un azzardo, ma in quel momento non ci hai creduto.
- E’ vero! Sì, ora ricordo!
Nara sapeva che era rischioso e lealmente lo aveva palesato ma desiderava così tanto un bambino, che contava molto in qualche semino superstite capace di colpire il bersaglio, come Dio ha voluto che fosse.

venerdì 2 novembre 2007

COMARI - di Franca Fusetti

E’ stata lei, Fedora, la linguaccia, a mettere il malumore fra me e Arturo. Le ha riferito Arturo, che io lo spiavo. Difatti mi guardava con occhio torvo, senza che io riuscissi a capire il perché. 
Che devo fare io, se il mio terreno confina con il suo? Io andavo fino in fondo, nella rimessa, a posteggiare il motorino. Mah!, dì un po’?, dovevo fare, come?, per riportare il mio motorino senza guardarlo, nel mentre lui era là in fondo al suo terreno confinante con il mio? 
La linguaccia, non vive bene se non semina zizzania. E’ stata proprio lei che ha sparlato di Arturo, benché su di lui avesse qualche mira. Sparla di tutti, ce l’ha come vizio. L’ho sentita proprio io dire: “Roba da matti! Alla sua età el se ga messo in testa, de rimaridarse!” 
Io non sparlo mai di nessuno, lo sai anche tu che mi conosci. Lavoro tutto il giorno, me ne mancherebbe proprio il tempo. 
Te lo giuro, è stata lei a provocare tutta la confusione, e farme passar mi per la maldicente. Se mai, da parte mia, te lo confesso, le uniche parole che ho detto, le me xe scampae un giorno in bottega da Maggio, dove se gavemo trovae con la Marisa della Clelia, la Teresa della Inisse e con la Maria della Cioci da Basso. 
Stavano parlando di Vanni Menegon, che ha quasi settant’anni, di Guido Bonasso che sarà attorno alla cinquantina e di Arturo, per l’appunto!, le diseva che i gaveva sa’ scumissià a vardarse attorno. Tanto cossa voto che i trova? Più de qualche galinassa vecia, gnanca più bona per el brodo, no ghe xe altro in giro! Ma questo lo digo solo in stò momento. 
Te lo giuro, io non ho fiatato, salvo che per quelle due maledette parole che mi sono scappate ma che non ho paura di ripetere, le ripeterei anche davanti al prete, se fosse necessario. 
Può o non può scappare di dire: "A quell’età cosa sarai boni de fare … a letto!” 
Cosa avrò detto di tanto strano? E’ la pura verità!; a parte Bonasso che è il più giovane e che, poi, ha il nome che lo aiuta, in fondo, a dubitare degli altri due, non ho ragione forse? 
Ma te ga dito ben!, figurarse! Piuttosto i dovaria vergognarse! Tutti sti piplò e musi duri i xe proprio na roba in “ec-ce-den-za!”. 
La Maria della Cioci, che sembra abbia messo gli occhi su Vanni Menegon, sentendo le me parole, con aria offesa la me ga risposto che, malgrado l’età, si può stare assieme anche solo per farsi compagnia e poi, vardandome con oci de sfida, ciòhò, la ga aggiunto:” Siccome, io, so come fare… a letto, non è detta l’ultima parola!” 
Mi no go xontà altro. Però mi sono ripromessa di spiegare tutto alla Pasquina, che come sai è la figlia di Arturo, non appena l’avessi rivista. 
Te ghe dirà tutto? Anche che i xe matti ad andare ancora in serca de done? 
Si , proprio tutto, delle donne e del motorino e la go incontrà, difatti. 
Ho spiegato alla Pasquina per più di un’ora, per filo e per segno, tutta la storia: di come la Fedora mette zizzania senza che io c’entri qualcosa, e anche di quelle due parole dette in presenza delle clienti di Maggio, del botegaro, per intenderse. Ho spiegato di quanto più mi interessi il buon vicinato che non le loro miserevoli storie di… letto. 
E la Pasquina? Cossa gala dito? 
La Pasquina la ga capìo e , per merito suo, anche Arturo me par rinsavìo. 
Sul serio? 
Sì, sul serio! Adesso Arturo, quando mi vede è sorridente e mi apostrofa con Giovanna di qua, Giovanna di là. 
Oh ben! Finalmente, se ga risolto el malinteso! Te sarà soddisfatta! 
Si, si! Più che soddisfatta! Basta che non si slarghi troppo, con la "be-ne-vo-len-za!", e che non pensi che io , a letto, sia come la Maria della Cioci da Basso. 


lunedì 15 ottobre 2007

Luna sul Po - di Franca Fusetti (2007)


Tu mi sorridi, col tuo faccione tondo
io ti corro incontro
con la mia bici dal fanale rotto.
Sei appena ascesa luna
sopra l'ansa del fiume,
fra una sponda e l'altra rimani sospesa.
il tuo bagliore lo inonda tutto
lui ti culla defluendo lento.
Indugi immota, lasciandoti osservare
dalla natura remota a te soggetta
e tu a lei devota.